Il distaccamento dal condominio

A volte, la presenza di più edifici autonomi (ad esempio uno stabile diviso in più scale autonome) non garantisce la costituzione automatica di un supercondominio.

Può accadere, infatti, che questi edifici formino, secondo quanto disposto dal costruttore, un’unica entità condominiale.
Le disposizioni del costruttore possono essere contenute nel regolamento condominiale (quali intestazione descrittiva della comunione a cui si riferisce il regolamento, o norma contrattuale che impedisce lo scioglimento), oppure, in caso di assenza di riferimenti in tale statuto, sono desumibili dai primi rogiti.

In situazioni del genere, la Giurisprudenza prevede la possibilità del distaccamento, inteso come distacco dalla propria compagine condominiale di appartenenza, con relativo esonero di partecipazione alle spese e di obbligo al rispetto delle delibere assembleari.

Tale evenienza è espressamente disciplinata dal Codice Civile agli artt. 61 e 62 d.a.c.c., che hanno proprio il compito di disciplinare i requisiti imprescindibili affinché il distaccamento possa essere possibile (salvo diversa convenzione).

A norma del Codice civile, quando un edificio o un gruppo di edifici appartenenti a proprietari diversi può essere diviso in parti che abbiano le caratteristiche architettoniche di edifici autonomi, si può decidere lo scioglimento del condominio. In questo modo, i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in un condominio separato.
Lo scioglimento può essere deciso anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune parti o servizi comuni: ciò rende scioglimento e supercondominio due fattori indissolubilmente correlati.
Questo perché, nella maggior parte dei casi conseguenti allo scioglimento, l’edificio che ha promosso il distaccamento dall’entità condominiale unitaria originaria, al fine di costituirsi in un condominio a sé stante, continua a condividere con gli edifici da cui si è separato dei beni e/o servizi in comune.
Tale fattispecie porta, inevitabilmente, all’automatica formazione di un supercondominio, proprio perché, tra condominii indipendenti, vi sarà la condivisione di beni e/o servizi che avranno bisogno di essere gestiti tramite apposito ente.

Lo scioglimento va deciso dall’assemblea condominiale: occorre la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà del valore millesimale dell’edificio originario (art. 61).

Tuttavia, se per realizzare la divisione occorreranno dei lavori edili di modifica, lo scioglimento dovrà essere deliberato dall’assemblea con la maggioranza degli intervenuti e almeno i due terzi del valore millesimale dell’edificio originario (art.62).
Come precedentemente illustrato, anche se si dovesse rendere necessario il mutamento dello stato delle cose, sarà possibile operare lo scioglimento perfino qualora restino in comunione fra i due edifici, ora diventati condominii indipendenti, dei beni e/o servizi.

Se l’assemblea non dovesse riunirsi o deliberare, lo scioglimento può anche essere richiesto al Giudice su domanda di almeno un terzo dei comproprietari (si ritiene a prescindere dal valore millesimale che rappresentano) di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione.
Va premesso, però, che lo scioglimento è una di quelle controversie condominiali disciplinate
dall’art. 71 quater disp. att. c.c., per cui, in caso di ricorso all’Autorità Giudiziaria, gli attori saranno obbligati ad esperire un tentativo di mediazione obbligatoria.
In caso di mancato accordo sarà il Tribunale a chiarire come andranno eseguite le divisioni.

Attenzione: la Legge parla di "edifici".
Nessun condòmino che abiti all’interno di un palazzo può distaccarsi dal condominio. Neanche se il condòmino in questione dovesse abitare al piano terra e avere un autonomo ingresso.
E ciò perché il tetto, il sottotetto, le scale, l’androne, le fondamenta del palazzo, l’ascensore, il lastrico solare sono di proprietà comune e non è possibile scioglierli.

Questo perché l'articolo 1119 del Codice Civile (articolo inderogabile ai sensi dell'art. 1138 c.c.) prevede che le parti comuni dell’edificio non siano soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino «e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio». 
Quest’ultima frase, aggiunta dalla
Legge 220/2012, sembrerebbe affermare che la divisione delle cose comuni richieda sempre il consenso unanime dei condòmini, ossia tramite accordi contenuti all'interno di scritture private, come un regolamento di condominio contrattuale.
Di fatti, come ricordato dalla Suprema Corte, la divisione delle cose comuni è materia sottratta alle competenze riconosciute dall’assemblea.

Secondo una sentenza di Cassazione (n.16385 del 6 giugno 2018), la divisione dell’originario condominio deve basarsi su presupposti fisici e strutturali e non può fondarsi su esigenze amministrative o gestionali.

Infine, non è possibile un’applicazione analogica in senso contrario degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., per cui è impossibile deliberare la fusione di più edifici autonomi, costituenti condominii indipendenti, in un’entità condominiale unitaria.